Centro Velico Caprera

Prima di scoprire la montagna, quando ancora ero una ragazzina, avevo frequentato una piccola scuola di vela in Sardegna, avevo navigato e scuffiato su un Flying Junior rosso.
Anche più avanti, tra una scalata e l’altra, avevo sempre frequentato il mare, iscrivendomi a un corso per derive alla scuola del Centro Velico di Caprera.
Ne ero uscita entusiasta e avevo acquistato subito un 470, deriva di classe olimpica molto veloce. La tenevo in una darsena di Chioggia, vicino a casa.
Quella barca mi diede un rapporto diretto con il mare, una navigazione molto sensibile, tecnica. Il contatto con il timone era il contatto con il mare, era una barca viva, veloce, uscivo quasi sempre da sola, non cercavo equipaggio, volevo sentirmi libera.
Se saliva a bordo un’altra persona, era come se la barca si fermasse, non volava più leggera. Mi piaceva manovrare da sola, cercavo sempre le andature portanti, amavo avere le scotte e il timone tutto nelle mie mani, sentire la barca leggerissima che planava piatta tra due ali di mare. Era come cavalcare un cavallo, dovevo trasmettere a quel guscio leggero un forte e deciso controllo. Tante volte, invece, la lasciavo andare, allentavo volutamente le vele e le scotte, per riprenderle subito dopo, come in un dialogo silenzioso e complice.
Il mio 470 si chiamava Superbuba.
Navigavo quasi sempre ai limiti, la barca aveva vele molto grandi rispetto allo scafo, il mio peso riusciva a mala pena a compensare la forza del vento, ero sempre vicina al rovesciamento, facevo bordi con lo scafo quasi in piedi e il boma che si trascinava in acqua.
Ne venni fuori con una mentalità abituata a un rapporto forte e impegnativo con il mare.
A un certo punto cominciai a cercare il grande mare, la navigazione, mi accorsi che quando uscivo con il 470 andavo sempre più al largo, l’uscita vicino alla costa non mi bastava più.
Pensai addirittura di caricare a bordo tenda, sacco a pelo e fornello e risalire a tappe la Laguna e il Golfo di Venezia, cominciai a sognare di navigare a lungo, anche di notte.
A un certo punto arrivò nella nostra darsena la barca di Raul Gardini, il Moro di Venezia.
Era appena successa la tragedia di quell’uomo, il suo suicidio.
Il suo marinaio me la fece visitare, fu un’emozione forte, incancellabile.
Quando mi fece scendere sotto coperta mi apparve uno scafo completamente vuoto, super tecnico, quella visione mi ha scosso nel cuore e nella mente.
Era la prima volta che vedevo una barca molto grande da corsa, bella e famosa, ne fui profondamente affascinata.
Capii che ero di nuovo a una svolta, che se non facevo un salto di qualità, verso la grande navigazione, verso le grandi barche, avrei sicuramente smesso con la deriva, il mio entusiasmo, la mia motivazione si sarebbero lentamente spenti.
Fu così che tornai a Caprera, m’iscrissi a un corso di navigazione d’altura, volevo mettermi alla prova, capire se ero pronta per una nuova, grande esperienza.
Quando mi misero in mano il timone di un cabinato di nove metri mi sentii, rispetto al 470, come se fossi seduta su una grande poltrona, comoda e sicura.
Era ottobre, facemmo le Bocche di Bonifacio con mare forza 7, fui sorpresa di poter affrontare un mare che, in quelle condizioni, era sempre stato proibito alla mia piccola deriva. Capii, però, quanto era stata importante quell’esperienza sul 470, capii che quegli anni mi avevano formato in modo indelebile.
Anche oggi, a distanza di anni, quando voglio navigare cerco sempre, istintivamente, quel tipo di navigazione, cerco una deriva.
Durante il corso di Caprera mi confrontai, per la prima volta, con gli altri, fu una grande scuola anche sul piano umano, cominciai a capire come viviamo diversamente la navigazione, le paure, le incertezze, il coraggio, affiorava tutto.
Stavamo in mare tutto il giorno, una vita completamente immersa nella natura, ormeggiavamo nelle più belle e selvagge insenature e baie dell’Arcipelago della Maddalena e della Costa Smeralda, la Sardegna era deserta, il mare freddo e cristallino come un diamante che racchiudeva in sè tutte le sfumature del blu e del verde.
Il vento era sempre forte, amavo moltissimo stare al timone, attendevo impaziente il mio turno come allieva.
Ero molto disinvolta, stare al timone mi era molto naturale, stavo arrampicata sul bordo della barca: «Come una vera bretone», disse l’istruttore per prendermi in giro. Ascoltavo distrattamente le lezioni di teoria, rifiutavo istintivamente le regole, le tecniche precise, i rigidi principi.
Ho sempre vissuto la barca come fosse un essere vivente, come una creatura impulsiva e sorprendente, ho sempre cercato con lei un rapporto fatto di sensazioni, di sensibilità, di improvvisazioni.
La barca insegue il vento, tante volte bisogna rispettare, non turbare quel magnifico accordo così naturale, lasciar volare via lo scafo, far respirare le vele, stringere, imbrigliare il meno possibile.
Non ebbi mai mal di mare, stavo benissimo, assaporavo un nuovo, inconsueto senso di libertà.
Quei grandi spazi, quella natura aspra e difficile, alimentarono pericolosamente il mio desiderio di sognare.
Tornai dalla scuola di vela molto motivata, decisa a continuare con la navigazione d’altura.

© Cecilia Carreri • Foto e video © archivio Cecilia Carreri - Contatti - Privacy Policy